Ustica, ventotto anni dopo

di | 16 Settembre 2008

Gli italiani non hanno diritto di conoscere la verità sul caso Ustica. E così anche i familiari degli ottantuno passeggeri del volo Itavia che la sera del 27 giugno 1980, mentre andava da Bologna a Palermo, s’inabissò nel Tirreno. Loro, i passeggeri, affrontando quel volo da inconsapevoli vittime della Ragion di Stato, non sapevano di certo che non sarebbero mai atterrati e che ventotto anni dopo la loro fine sarebbe stata ancora un mistero.Quella notte le tenebre hanno inghiottito, senza appello, la loro vita, la dignità di questo Paese e la verità su un caso che ora due magistrati della procura di Roma tenteranno di riaprire. Quella notte è successo qualcosa che mai nessuno avrebbe dovuto sapere. Sapevano e sanno, tuttavia, solo coloro che dovevano proteggere il volo di quell’aereo civile e che invece sono diventati, per sempre, i custodi di un segreto inconfessabile. L’appuntamento con la morte è fissato alle 20,59, circa tredici minuti prima dell’atterraggio, e non lascia scampo a nessuno. Finisce tutto in un attimo. Il tempo di un “Gua…”, inciso nell’ultimo pezzetto del nastro del Cockpit Voice Recorder, la scatola arancione, che tutti si ostinano a chiamare nera, che registra le voci dei piloti. Tra quei passeggeri c’è Alberto Bonfietti, 37 anni, giornalista del quotidiano “Lotta Continua”, che non ha il tempo di appuntare neanche un ultimo pensiero nel suo taccuino. Così come Francesco, Paolo, Daniela, Andrea e Marianna. Neanche loro hanno il tempo di pensare, per l’ultima volta, ai loro cari che sono giù, a Palermo, ad attenderli. Non ha il tempo di scrivere nulla sul suo diario segreto neanche Giuliana Superchi, 11 anni, e al papà, che la sta aspettando a terra, non potrà far vedere la sua pagella. Anche Rosa De Dominicis, 21 anni, allieva hostess, non ha il tempo di capire se questo sarà il lavoro della sua vita. Nessuno su quell’aereo ha il tempo di accorgersi di quanto sta avvenendo lì fuori, di quanto la sorte gli ha riservato. Nessuno di loro potrà dire ad un magistrato “c’ero e ho visto”.
Oggi, ventotto anni dopo, a sentire le parole del senatore Francesco Cossiga che all’epoca era presidente del Consiglio dei ministri, parole che hanno ispirato il nuovo filone investigativo, sembra scontato il fatto che quella notte sui cieli del Tirreno si consumò una battaglia aerea che vide i caccia della marina francese in prima linea colpire l’aereo sbagliato che si trovava, però, nel posto giusto. Quella notte, infatti, c’erano aerei che dovevano dare la caccia a qualcuno, forse a Gheddafi, che doveva essere lì, nel Punto Condor delle carte aeronautiche, vicino Ponza e un po’ più a Nord di Ustica. Ma lì, in quel punto, c’era un altro aereo, bianco con le strisce rosso pompeiano, un DC9 con la scritta Itavia sui fianchi. C’erano solo loro, i 77 passeggeri del volo IH-870 e i 4 membri dell’equipaggio.
Hanno colpito l’aereo sbagliato e questo gli italiani lo hanno capito e non solo perché un giudice, Rosario Priore, chiudendo nel 1999 un’istruttoria durata diciannove anni, ha messo nero su bianco, sulla base di un’infinità di prove e di circostanze, i contorni di un contesto di guerra di cui il DC9 fu vittima fortuita. Un contesto che ancora oggi attende che sia fatta giustizia, senza che il dibattito e gli esiti di un processo penale, già concluso, che si doveva limitare a giudicare la sola condotta dei vertici dell’Aeronautica, l’abbiano scalfito. Sì, quella sera c’era proprio la guerra lassù: c’erano aerei militari di almeno quattro nazioni (Italia, Libia, Stati Uniti e Francia), c’erano velivoli fantasma, “senza nome”, e portaerei che sostavano in mare. Il livello di allerta era altissimo e a Roma, come a Parigi, Washington e allo Shape in Belgio, in tanti stavano seguendo in diretta quanto avveniva. Loro, quelli che sedevano davanti ai radar e nelle sale di comando della Difesa, sanno come sono andate le cose. Lo sa, di certo, il senatore Francesco Cossiga, e lo sanno anche i vertici del Sismi, chiamati in causa da Cossiga stesso, per anni esclusivamente impegnati “a verificare – scrisse Priore – la “tenuta” della posizione ufficiale assunta dall’Aeronautica militare dell’assoluta estraneità italiana all’incidente”.
Lo sapeva, probabilmente, anche Mario Alberto Dettori, il radarista in servizio quella notte nel centro radar dell’Aeronautica militare di Grosseto, trovato impiccato ad un albero sul greto di un fiume nel marzo del 1987. Lui era davanti al radar e vide qualcosa che lo turbò a tal punto che parlando con un familiare disse: “Sai, l’aereo di Ustica, c’è di mezzo Gheddafi, è successo un casino, qui fanno scoppiare una guerra”. Prima di finire appeso a quell’albero ripeteva in modo ossessivo: “il silenzio è oro e uccide”. Chi sa, chi non ha fatto quella sua stessa fine, e non sono in pochi, è ancora oggi nelle condizioni di parlare, di raccontare ciò che vide e ciò che avallò prima con la complicità e poi con il silenzio.
Probabilmente anche il Muammar Gheddafi sa qualcosa in più di noi, dato che in ventotto anni non ha mai smesso di affermare che quella sera la Libia fu vittima tanto e quanto il nostro Paese. L’ultima volta lo ha ripetuto davanti alle sue Tv, era il 31 agosto 2003, in occasione del 34esimo anniversario della Rivoluzione. Non ha mai smesso di accusare chi probabilmente voleva ucciderlo: forse gli americani, forse i francesi. Insomma i suoi nemici dichiarati. Forse era proprio il suo l’aereo che doveva essere tirato giù, l’aereo che doveva essere lì, nel Punto Condor al posto dell’Itavia. E poi come non ricordare il suo MiG 23, quello ritrovato sulla Sila, caduto – dice la nostra Aeronautica – il 18 luglio 1980, perché era rimasto senza benzina, ma con dentro un pilota che indossa divisa e anfibi della nostra Aeronautica, morto almeno venti giorni prima, forse addirittura sempre quel 27 giugno. Un MiG, con qualche buco di troppo sulla carlinga, che interessa a molti: alla Cia, ai nostri servizi, ai carabinieri di Crotone, che lo cercano a fine giugno e che negheranno per anni di essersene interessati. Un MiG che verosimilmente “buca” lo spazio aereo italiano mentre nel basso Mediterraneo è in corso un’imponente esercitazione della Nato denominata “Natinad Demon Jam V”. Forse la chiave di volta è proprio il suo ruolo, forse, come disse una volta Giovanni Spadolini ai giornalisti: “scoprite cosa è successo a quel MiG caduto sulla Sila e troverete la chiave per capire la strage di Ustica”.
Giuliano Amato, che da sottosegretario alla presidenza del Consiglio si occupò molto di Ustica anche su stimolo di Bettino Craxi, dice Cossiga, sapeva: perché fu informato dal Sismi, dal generale, piduista, Giuseppe Santovito, che quel missile doveva colpire Gheddafi che si salvò perché fu avvertito proprio dai nostri servizi militari. “Un missile – dice Cossiga – a risonanza lanciato da un aereo della marina francese”. Nel giugno 2000, tuttavia, è proprio Amato, da presidente del Consiglio dei ministri, a tentare di chiedere conto di quanto avvenuto alla Francia e agli Stati Uniti. Perché il nostro Paese pretendeva e pretende ancora oggi delle risposte in particolare da Parigi, e ora ci proveranno di nuovo Erminio Amelio e Maria Monteleone, i due pm della procura di Roma che nell’aprile scorso, interrogando proprio Cossiga e Amato, hanno riaperto le indagini sulla strage di Ustica. Indagini mai chiuse, in quanto fu proprio il giudice Priore, dichiarando di non doversi procedere per strage perché erano ignoti gli autori del reato, a stralciare gli atti alla procura di Roma.
La magistratura ha bisogno di alcune risposte, risposte che quasi un centinaio di rogatorie internazionali non hanno ottenuto da Francia, Stati Uniti e Libia. Risposte che non ci ha fornito neanche l’unico processo che si è potuto celebrare in questi ventotto anni, quello sui presunti depistaggi compiuti dai vertici dell’Aeronautica militare, scaturito dall’istruttoria di Priore e conclusosi nel gennaio del 2007 con il pronunciamento della Cassazione che ha definitivamente assolto, “perché il fatto non sussiste”, i generali, Lamberto Bartolucci, all’epoca Capo di Stato maggiore dell’Ami, e il suo vice, Franco Ferri, accusati di non aver correttamente informato il governo su quanto era accaduto. In estrema sintesi – sosteneva l’accusa – i generali, nell’immediatezza dei fatti, tennero nascosta al Governo la circostanza, non irrilevante, che nei tabulati di Ciampino c’erano tracce che indicavano la probabile presenza di aerei non identificati in prossimità del DC9 nella parte terminale del volo. A quel processo erano arrivati in settanta, dovevano rispondere di reati secondari, come la falsa testimonianza e il favoreggiamento, ma alla fine, a colpi di prescrizioni, gli imputati sono rimasti solo in due. Poi le assoluzioni, perché mancano le prove, si sarebbero scritto in un’altra epoca e con un altro codice penale. Poi ci ha pensato anche il Governo, il secondo Berlusconi, a cambiare le regole, ad ammorbidire definitivamente il reato di alto tradimento. Niente colpevoli, niente risarcimento.
Tornando alle rogatorie. I francesi, per esempio, potrebbero fornirci le registrazioni radar delle stazioni della difesa aerea operanti nel mar Tirreno che certamente registrarono quanto avvenne. Potrebbero fornirci la ricostruzione dei movimenti delle loro portaerei, come la Foch o la Clemenceu che era certamente nei nostri mari. Oppure ogni notizia in merito all’attività della base corsa di Solenzara. Da lì, per gran parte della notte, decollarono e atterrarono Mirage e di questo siamo certi perché lo ha raccontato al giudice un generale dei carabinieri, uno degli uomini più fidati di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale Nicolò Bozzo, che quel giorno, con la sua famiglia, era proprio in vacanza a due passi da quella base e smentì la circostanza, da sempre sostenuta dalle autorità francesi, che l’attività di volo cessò alle 17.
Perché proprio loro? Forse perché i francesi avevano qualche motivo in più di noi per avercela con Gheddafi, ed è noto che i rapporti tra i due paesi negli anni Ottanta non erano affatto idilliaci. Del resto il Muammar era un nostro partner, possedeva il 13 per cento delle azioni della Fiat ed era in affari con l’Eni, e gli avevamo concesso di sorvolare il nostro territorio e addirittura addestravamo anche i suoi piloti. Le indagini hanno provato l’esistenza di alcuni corridoi, addirittura non coperti dal sistema della Difesa aerea italiano, che i caccia del colonnello utilizzavano per raggiungere la Jugoslavia, in particolare la base sovietica di Banja Luka attrezzata per la manutenzione dei MiG, e poi ritornavano a Tripoli utilizzando la stessa aerovia “Ambra 13”, in parte percorsa quella sera anche dal DC9.
Di accordo segreto fra la Libia e la Jugoslavia, relativo all’uso dei suoi aeroporti da parte di velivoli libici come scalo tecnico, parlano alcune informative prodotte dal centro Sismi di Verona. Ma gli stessi appunti parlano anche di numerosi ufficiali in congedo della nostra Aeronautica al servizio dei libici e certamente a conoscenza dell’ubicazione delle zone cieche del sistema di avvistamento aereo italiano. Ma quelle carte del nostro controspionaggio militare parlano anche dell’irritazione dei governi di Francia e Stati Uniti sull’atteggiamento, assai troppo accomodante, dell’Italia nei confronti di uno stato arabo.
Gli Stati Uniti, per cominciare, potrebbero declassificare gli omissis contenuti nei circa 1.500 telex spediti dall’ambasciata statunitense di Roma verso il Dipartimento di Stato a Washington, e viceversa, dal 1980 al 2000. Dispacci, giunti in Italia grazie al Freedom Information Act, la legge statunitense con cui i giornalisti possono accedere agli atti pubblici declassificati, che dimostrano il grande interesse dell’amministrazione Usa sulla vicenda Ustica ma che, purtroppo, sono giunti alla magistratura italiana con moltissime cancellature.
Quel che sappiamo, quello che le indagini di Priore hanno certamente chiarito, è che quella sera tutto si consumò sotto gli “occhi” di decine di stazioni radar, anche della rete Nadge Nato, sopra le antenne di una dozzina di basi “sigint” dell’intelligence americana, sotto l’ombrello di copertura di numerosi satelliti spia di paesi alleati e non, sulla testa della Sesta flotta e chissà di quanti altri. Il corridoio percorso dal DC9 da Bologna a Ponza era tutt’altro che libero, era affollatissimo e anche questo lo sappiamo perché tracce ve ne sono nei tabulati radar di Ciampino, nelle risposte fornite dalla stessa Nato, nelle conversazioni terra-bordo-terra e nelle telefonate intercorse tra Ciampino e l’attaché militare della Usa Embassy.
Un segreto che non c’è, anzi che non esiste sulla carta. E’ recente, poi, la lettera inviata all’avvocato di parte civile Daniele Osnato, che rappresenta alcuni familiari delle vittime, dal generale Giuseppe Cucchi, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (ex Cesis), dove si ribadisce che nessun segreto di Stato è stato apposto su atti o documenti inerenti il caso Ustica. Cucchi, per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri, smentisce ufficialmente l’esistenza di un dossier riservato o di atti secretati sulla strage. Ma questo già lo sapevamo: “Si stima – scrisse il giudice Priore nelle conclusioni della sua istruttoria nove anni fa – che ci si sia trovati innanzi a qualcosa che è sfuggito e ancora oggi sfugge al controllo istituzionale ed alle garanzie poste dall’ordinamento. Ci si trova in presenza di una forma alquanto anomala di opposizione del segreto di Stato – prosegue Priore – che viene opposto non secondo la rituale procedura bensì attraverso la “scomparsa”, in altre parole l’occultamento e la negazione dell’esistenza stessa del segreto. Non si è fatto altro che rendere segreto il segreto stesso, impedendo in questo modo che lo stesso potesse essere soggetto al controllo politico istituzionale previsto dalla normativa. Da un punto di vista formale il segreto non esiste; nella sostanza – conclude il giudice istruttore – invece esiste ed è stato opposto nei fatti ostacolando ed impedendo di accertare gli eventi e le responsabilità”.
Sappiamo che il DC9 non era solo quella sera, e questo è sfuggito a chi ha fatto in modo che dell’affaire Ustica non si sapesse più nulla, e sappiamo anche che in molti videro da terra e dall’alto, come coloro che erano a bordo dell’aereo radar Awacs della Nato in volo sull’Appennino tosco-emiliano. Sappiamo che sotto la pancia del DC9 c’era nascosto, almeno dalla Toscana in giù, un altro aereo che sfruttava la sua ombra per non essere intercettato dai radar. Due tra i massimi esperti di guerra aerea, gli americani John Transue e John Macidull, guardando il tracciato radar di Ciampino, non ebbero alcun dubbio: nel punto dove il DC9 è scomparso un altro aereo, un caccia, compie una manovra d’attacco da manuale, cioè con il sole alle spalle e l’obiettivo di fronte, incrociando la rotta del DC9 da Ovest verso Est. Sappiamo, probabilmente, che videro tutto anche i due piloti dell’Aeronautica Militare, Mario Naldini e Ivo Nutarelli, che fino a circa dieci minuti prima della scomparsa del DC9, erano in volo su un intercettore TF-104 decollato da Grosseto. Purtroppo, però, non potranno mai raccontare la loro versione, non potranno dirci perché lanciarono più volte un segnale di emergenza: nel 1988 Naldini e Nutarelli sono morti, scontrandosi in volo durante lo spettacolo delle Frecce Tricolori, a Ramstein.
Gli italiani hanno più di un dubbio, e gli inquirenti in questi ventotto anni hanno avuto più di un sospetto che oltralpe qualcuno sappia la verità. La verità su questa sporca faccenda è talmente imbarazzante e inconfessabile che la vita di 81 cittadini non ha alcun peso rispetto alla ragione per cui, in tempo di pace, qualcuno lanciava missili sulle nostre teste e anche con una pessima mira. La verità è così inconfessabile che centinaia di addetti alla sicurezza di questo paese, in luoghi e momenti diversi, hanno compiuto tutti le stesse identiche azioni per depistare, insabbiare, inquinare, distruggere ed alterare le prove e quindi la verità. Un piano sistematico e sovversivo compiuto a colpi di lamette che tagliano pagine di registri e di bobine mai ritrovate o cancellate proprio nel punto di interesse. Fino a sostenere, per anni, la pazzesca ricostruzione della bomba collocata nella toilette del DC9 che scoppia su un aereo che decolla con due ore di ritardo, che non danneggia neanche la tavoletta del water e che nessuno ha mai rivendicato.
La scienza ha fallito, hanno voluto scrivere anche questo i giudici di Appello in fondo alle motivazioni delle sentenza, ma nessuno si è mai chiesto perché il prezzo pagato sia stato così alto. Nessuno, ancora oggi, riesce a dare una risposta ad una delle domande più elementari: perché? Possiamo essere divisi sulla ricostruzione dello scenario, sulla nazionalità del missile, o se si trattò di una near collision, ma qualcuno dovrà pur dare al Paese una risposta.
Di scoprire la verità, di bussare alla porta dei nostri alleati pretendendo una volta per tutte quello che ci spetta, ce lo chiedono i familiari delle vittime, ce lo chiedono coloro che in alcuni casi non hanno avuto neanche una tomba su cui piangere perché gli abissi del mare non hanno mai restituito il corpo dei loro cari. I due pm che oggi hanno voluto riaprire il caso rischiano di rimanere soli, rischiano di non ottenere le risposte che cercano se la diplomazia, e con essa la politica, non farà il proprio dovere.
La storia recente, del resto, racconta qualcosa di simile. Il nostro Governo spedì a Tripoli anche lo stesso Cossiga per convincere Gheddafi ad ammettere, dinanzi all’Alta Corte dell’Aja, in cambio del ritiro dell’embargo e il rientro della Libia nel consesso internazionale, le proprie responsabilità nei due attentati terroristici, costati la vita ad oltre quattrocento persone, ai voli Pan Am, precipitato a Lockerbie in Scozia nel 1988, e Uta precipitato nel deserto del Tenerè in Ciad nel 1989. Perché non praticare la stessa strada per fare luce su un episodio che ha visto 81 connazionali morire per cause ancora non del tutto chiarite?
Ne va della nostra dignità, anche se la speranza che qualcuno un giorno scopra la verità è flebile quanto la luce di una di quelle ottantuno lampadine che illuminano, a ritmo cardiaco, le lamiere contorte del DC9 ricostruito, dopo l’ultimo viaggio che l’ha portato dall’hangar di Pratica di Mare a Bologna, nel Museo per la Memoria di Ustica.

Megachip.info – di Fabrizio Colarieti – 16 settembre 2008