La Fiat di Cesare Romiti, Ustica e il mistero del Mig libico

di | 26 Febbraio 2011

Che Gheddafi sappia la verità sull’affaire Ustica è un dato incontrovertibile, non fosse altro perché quella notte nei cieli del basso Tirreno – lo ha ripetuto lui stesso decine di volte – il vero obiettivo (degli americani e dei francesi), era proprio lui e non il Dc9 dell’Itavia. E trentuno anni dopo quella tragedia, mentre il regime del Muammar si sgretola su se stesso, riemergono inquietanti particolari sui rapporti tra Italia e Libia, sulla vicenda di quel Mig caduto sulla Sila, forse lo stesso giorno in cui fu abbattuto il Dc9, e sull’atteggiamento, assai sospetto, del Governo italiano, del Sismi e degli allora vertici della Fiat. Cosa c’entra la più grande azienda automobilistica italiana, con Ustica e con Gheddafi, lo spiega oggi Cesare Romiti, l’uomo che guidò i vertici del Lingotto dal ‘74 al ’98. «Gianni Agnelli informò George Bush senior, che allora era alla guida della Cia: ne ricevette una serie di raccomandazioni e il via libera. Poi, insieme, andammo da Carlo Azeglio Ciampi, e ricevemmo la benedizione anche del Governatore della Banca d’Italia». Queste le sue parole, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 23 febbraio, con cui racconta le «trattative lunghissime, durate quasi due anni» per l’ingresso della Libia nell’azionariato Fiat. Nei dieci anni della Libia in Fiat, con circa il 10 per cento, dice Romiti, non ci fu «mai un’interferenza, mai una richiesta. Si sono sempre comportati come banchieri svizzeri», gli accordi del resto erano chiari: «Non sarebbero mai entrati nella gestione, non avrebbero mai avuto notizie sensibili». Ma Romiti ricorda al Corriere anche un’altra cosa, che non può passare inosservata: narra di una telefonata ricevuta da Regeb Misellati, uno dei due consiglieri in Fiat della Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico), l’organizzazione pubblica libica, controllato al 100 per centro dal Tesoro, che si occupava degli investimenti internazionali e di gestire i proventi petroliferi. In quella telefonata Misellati, ex impiegato della filiale di Tripoli della Barclays Bank, poi diventato uno dei finanzieri di punta di Gheddafi, chiese a Romiti «una mano per recuperare i resti dell’aereo». Il presidente della Fiat, oltre che con Misellati, parlerà della tragedia del volo Itavia anche con un altro consigliere di Lafico, Abdullah Saudi: «Li avevo sentiti, naturalmente, subito dopo l’incidente di Ustica.Incidente, poi… Temevamo tutti – afferma ancora Romiti – fosse stato un missile. Uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l’arma che parte e colpisce l’aereo civile. Ne parlammo. Mi rassicurarono. So che qualche settimana più tardi si scoprì il “caccia” libico caduto in Calabria. Misellati mi richiamò».
Il caccia in questione era il Mig 23 Libico, quello ritrovato a Castelsilano, caduto – dice la nostra Aeronautica – il 18 luglio ‘80, perché rimasto senza benzina, ma con dentro un pilota, Ezzedin Fadah El Khalil, siriano di origine palestinese, che indossava divisa e anfibi della nostra Aeronautica, morto almeno venti giorni prima, forse addirittura sempre quel 27 giugno. Un Mig, vale la pena ricordarlo, con qualche buco di troppo sulla carlinga, che interessa a molti: alla Cia, ai nostri Servizi e a quelli di tutto l’Occidente, ai Carabinieri di Crotone, che lo cercano a fine giugno e che negheranno per anni di essersene interessati. Un Mig che verosimilmente “bucò” lo spazio aereo italiano mentre nel basso Mediterraneo era in corso un’imponente esercitazione della Nato. La Libia rivoleva il suo Mig, questa la richiesta di Misellati ai vertici della Fiat: «Ne parlai con i servizi, a Roma», afferma oggi Romiti, poi il suo parere su quanto accadde quella notte: «Non sapremo mai cos’era successo, né a Ustica né sulla Sila, né durante né dopo. Sappiamo che il Mig fu restituito». Non è affatto vero. Perché i pezzi del Mig furono restituiti solo in parte alla Libia. Per anni una consistente quantità di strumenti del velivolo, compreso il cupolino e gran parte dell’avionica, restarono sotto sequestro, coperti anche dal segreto di Stato, nell’hangar di Pratica di Mare accanto a quelli del Dc9.
Agli atti dell’inchiesta sul disastro di Ustica vi è traccia di tutto ciò, in particolare una nota del Sios del 20 novembre ’82 in cui si attesta – conformemente al vero – che non ci furono provvedimenti di sequestro da parte della magistratura e che i pezzi del Mig furono “ufficialmente” restituiti al Governo libico dopo la richiesta pervenuta al Ministero degli Esteri italiano, “tre giorni dopo l’incidente, mentre a seguito di direttive superiori, parti di essi sono stati trattenuti per esigenze informative”. L’intelligence dell’Aeronautica analizzò quelle parti per mesi; l’Ambasciata americana ne ritirò alcune d’interesse inviandole per le analisi al centro della Foreign Technology Division di Wright Patterson. Così come il servizio segreto della Repubblica Federale Tedesca che ricevette, tramite il Sismi, parti del velivolo incidentato “restituendole successivamente e richiedendone altre per effettuare ulteriori analisi”. Nel giugno ‘86 il Sismi si fece tramite anche dell’interesse britannico “all’esame delle componenti avioniche del velivolo”, programmando una riunione di lavoro congiunta e due anni dopo scrive il nostro Servizio militare: “il Servizio inglese appare ancora interessato a verificare la possibilità di controllare le frequenze impiegate dal sistema Lazur e a reperire la documentazione fotografica relativa all’incidente di volo per acquisire elementi sul posizionamento delle antenne di comunicazione sul velivolo e sui cablaggi di collegamento”.
Perciò, al contrario di quanto afferma Romiti, non è affatto vero che quel Mig fu restituito ai Libici. Tutti i Servizi occidentali se ne interessano, sin dall’immediatezza, in particolare la Cia che spedì sulla Sila il suo capostazione a Roma, Duane Clarridge. Scrive il giudice Rosario Priore, nella parte della sua sentenza-ordinanza in cui tratta l’incidente di Castelsilano: “Alcuni perché chiamati da noi come gli Israeliani e gli Americani, altri di iniziativa. Quella macchina, nonostante alcuni la abbiano deprezzata – forse solo gli Americani la conoscevano e ne erano in possesso di esemplari – è stata a lungo oggetto di esame e di studio”. E i libici, accorgendosi che tra i rottami restituiti mancavano molte parti del velivolo, la presero male e di tale mancanza ne fecero motivo di proteste. Quei pezzi finirono anche nello stabilimento Snia di Colleferro, dove il 9 novembre ‘84 fu addirittura effettuata “una prova di scoppio in anfiteatro della testa di guerra del missile Aspide 1-A” per verificare “in modo realistico la capacità delle sfere di danneggiare o distruggere, dopo la perforazione di uno schermo d’acciaio, sistemi ed impianti del Mig”. Dieci anni dopo, nel ’94, quando del Mig e della sua avionica si conosceva ormai ogni segreto, il Sismi su proposta del Sios tentò, addirittura, di affondare in mare quanto rimaneva del Mig di Castelsilano. Il servizio segreto militare espresse nel maggio dello stesso anno il proprio nulla osta all’operazione di “alienazione di materiali in possesso e non più necessari alle analisi tecniche” e per procedere fu richiesta la disponibilità di un elicottero HH3F. La missione doveva partire da Ciampino e l’affondamento delle casse contenenti i pezzi del caccia libico doveva avvenire a circa 30 miglia da Ostia, ma tutto ciò – scrive ancora Priore – non avvenne “per motivazioni non in atti e mai palesate”. Trentuno anni dopo la caduta di quel Mig, i pezzi mai restituiti alla Libia dovrebbero essere ancora a disposizione dell’Aeronautica militare.
Veniamo alla Fiat, scrive ancora Priore: “Nell’agosto dell’80 il responsabile dell’attività internazionale di questa impresa, successore proprio in quel mese di Romiti alla presidenza del “Comitato mezzi e sistemi per la difesa”, tal Pignatelli Nicolò, accompagnò Romiti dal Direttore del Sismi Santovito. In questo incontro si parlò tra l’altro della questione del recupero dei rottami di quel velivolo. Esso Pignatelli fu investito della questione tra quella fine d’agosto e la prima decade di settembre da Misellati Rageb, vice governatore della banca nazionale libica e “rappresentante dell’azionariato libico”. Questo “senior” – superando il rappresentante libico a Torino, certo Montasseri – richiese che dell’operazione si occupasse la Impresit, azienda Fiat specializzata nelle grandi costruzioni. Pignatelli comunicò la richiesta a Romiti che nulla obiettò; affidò l’incarico all’amministratore delegato dell’Impresit; furono compiuti sopralluogo e previsione dei costi, previsione che superò il mezzo miliardo. Di tutto fu informato Romiti. L’iniziativa però cadde e Pignatelli seppe che l’operazione era stata affidata e portata a termine da un’impresa calabrese. Misellati, che spesso di lamentava della disattenzione della Fiat nei confronti del suo Paese, non tornò più sull’argomento, pur avendo sostenuto che quel recupero era importante per la Libia”.
Quindi ciò che afferma oggi Romiti, in merito alla telefonata e alle pressioni ricevute da Misellati, è vero fino in fondo, ma di ulteriori sollecitazioni libiche sulla Fiat c’è traccia anche nei carteggi sequestrati al Sismi durante l’istruttoria: “Altra persona che parla di questi maneggi è l’ex capo-centro Sismi al Lussembergo, il professor Francesco Pelaia. Costui fu incaricato dal suo Direttore, cioè dal generale Santovito, di organizzare un incontro con l’amministratore delegato della Fiat Romiti. Egli si adoprò tramite il rappresentante della Fiat a Roma, tal Gaspari già appartenente al Sismi, e predispose, anche con l’aiuto del capitano Artinghelli della segreteria del Direttore del Sismi, una colazione al Roof Garden dell’Eden di via Ludovisi. Santovito da parte sua chiese una collaborazione della Fiat ad impiegare sue strutture per fini del Servizio in Paesi dell’allora oltre Cortina. Romiti a sua volta chiese ausilio per il recupero del MiG, riferendo che Gheddafi aveva fatto pressioni in quel senso, addirittura “stava rompendo le palle”.
Romiti aveva riferito tutto ciò anche all’autorità giudiziaria: “Per quanto concerne l’episodio dell’aereo libico caduto in Sila ricordo le circostanze; evidentemente esponenti libici, nell’ambito del consiglio di amministrazione, – che sono quelli con cui noi intratteniamo rapporti – ci rappresentarono l’esigenza di recuperare un aereo militare caduto in Calabria; ricordo che l’aereo non era stato intercettato dalle apparecchiature specializzate italiane. Ciò appresi dalla stampa, ricordo che i rappresentanti libici ci chiesero all’uopo se noi avevamo delle attrezzature tecniche idonee a recuperare l’aereo militare. Prima di fare un qualunque passo volli consultarmi con il direttore Santovito e pertanto si addivenne all’incontro. Gli dissi che non avevamo le attrezzature adeguate per il prelevamento richiestoci. In sostanza io finii per demandare il problema del prelevamento a Santovito e non so poi come fece”. A quel punto i libici, considerata la situazione – Fiat che propendeva per la costruzione di una teleferica con tempi di intervento lunghissimi; il Sismi che proponeva una gru che non si trovava – affidarono l’incarico all’Elifriuli, che avrebbe dovuto impiegare per il trasferimento dei pezzi un suo elicottero, ma qualcosa andò storto: “Un tecnico di questa impresa incaricato del sopralluogo, si reca a Castelsilano proprio il giorno del rilascio dell’autorizzazione – probabilmente quella nota di nulla osta della Procura della Repubblica – ed avvia i preparativi per le operazioni. Proprio durante il sopralluogo questo tecnico, Vogrig Fabiano, incontra un pastore abitante in una casupola nei pressi – ma nessuna PG lo ha mai individuato, né prima né dopo – che dà una nuova versione della caduta. Il fatto sarebbe avvenuto tra il 28 e il 29 giugno. L’aereo precipitando avrebbe dapprima toccato il terreno con la parte inferiore della coda e poi avrebbe percorso “scivolando sul terreno” alcune centinaia di metri prima di arrestarsi. Il pilota sarebbe stato sbalzato fuori dell’abitacolo al momento del primo urto, e quindi si sarebbe dovuto trovare a diverse centinaia di metri dal relitto”. Se il pastore dice la verità (e non sarà l’unico ad affermare tali circostanze) l’incidente sarebbe avvenuto alla fine di giugno e non il 18 luglio. Ma nei giorni in cui la Elifriuli sta organizzando per i libici il recupero dei rottami del Mig accade altro: “il 4 settembre allorché si stanno coordinando i preparativi per la partenza, il figlio del titolare dell’Elifriuli, Coloatto Marco, riceve, nella sede amministrativa della società a Grado di Gorizia, una telefonata anonima a voce maschile e accento meridionale. L’ignoto interlocutore chiedeva di non effettuare il recupero, sotto minaccia di abbattere sulla verticale della Calabria gli elicotteri della società, operante all’epoca sugli aeroporti di Foggia e Catania per il controllo della costruzione di un metanodotto della Snam. Il pomeriggio di quello stesso giorno arrivava una seconda telefonata, questa volta nella sede operativa della società a Cividale del Friuli. Sempre una voce maschile con accento meridionale questa volta minacciava l’abbattimento degli elicotteri dell’Elifriuli, che si trovavano nei due aeroporti sopra menzionati con modalità imprecisate. Quello stesso giorno il titolare della ditta rinuncia al recupero”. Il recupero sarà effettuato da una ditta calabrese, ritenuta dagli inquirenti in odor di mafia.
Diceva Giovanni Spadolini ai giornalisti: «Scoprite il giallo del Mig libico e avrete trovato la chiave per trovare la verità di Ustica». Aveva ragione allora, come ne ha ancora oggi.

(di Fabrizio Colarieti)