Ragioni di Stato

di | 27 Giugno 2010

La domanda, trent’anni dopo, è sempre la stessa: perché?
Il 27 giugno 1980, un minuto prima delle 21, precipitava dal cielo di Ustica al fondo del Mar Tirreno un DC-9 della compagnia Itavia, in volo da Bologna a Palermo con a bordo ottantuno passeggeri. Sono passati trent’anni dalla più grave tragedia dell’aviazione italiana, subito divenuta il caso Ustica.
Quella notte la storia comincia con un aereo che scompare dagli schermi radar e i suoi passeggeri (64 adulti e 13 bambini) e l’equipaggio (2 piloti e 2 assistenti di volo), inghiottiti dal mare. Immediate le tesi su quello che doveva sembrare a tutti i costi un incidente, una sciagura del tutto casuale, forse un caso remoto – ricordate? – di cedimento strutturale. Mille ipotesi, mille inchieste, il silenzio di tanti, l’impunità e il mistero che sempre più avvolgeva quello strano incidente. Invece quella sera, lassù, c’era la guerra: questo hanno raccontato agli italiani i magistrati che hanno indagato sulla Strage di Ustica. Lo hanno detto anche ai familiari delle vittime, senza però lasciare loro la possibilità di gridare “assassino” a qualcuno, perché, riassumendo il mare di carte giudiziarie in cui è scritta questa storia, restano ancora oggi “ignoti gli autori del reato”. Loro, i passeggeri e l’equipaggio, affrontarono quel volo da inconsapevoli vittime di una scellerata Ragion di Stato. Non sapevano di certo che non sarebbero mai atterrati e che la loro fine sarebbe diventata un giallo. Lungo trent’anni. Tra quei passeggeri c’era Alberto Bonfietti, 37 anni, giornalista del quotidiano “Lotta Continua”, che non ha avuto il tempo di appuntare un ultimo pensiero nel suo taccuino. Così come Francesco, Paolo, Daniela, Andrea e Marianna. Forse neanche loro hanno avuto un istante per pensare un’ultima volta ai loro cari, in attesa a Palermo. Non ha avuto il tempo di scrivere sul suo diario “segreto” neanche Giuliana Superchi, 11 anni, e al papà, che la stava aspettando a terra, non ha potuto far vedere la pagella. Anche Rosa De Dominicis, 21 anni, allieva hostess, non ha avuto modo di capire se quello fosse davvero il lavoro della sua vita. Questa è Ustica. Quella notte le tenebre hanno inghiottito tutto questo, senza appello: la vita di quelle sfortunate persone, la dignità del nostro Paese, le prove e la verità su un caso mai chiuso per la giustizia italiana. Quella notte è successo qualcosa che nessuno doveva sapere. Sapevano e sanno ancora oggi, tuttavia, solo coloro che dovevano proteggere il volo di quell’aereo e che, invece, sono diventati per sempre i custodi di un segreto inconfessabile.
La storia va ripercorsa dall’inizio, in quell’attimo, il tempo monco del “Gua…”, inciso nell’ultimo pezzetto del nastro che girava dentro la scatola nera: un frammento di parola che non ha dato risposte, ma solo un indizio. Sull’aereo, tranne il comandante Domenico Gatti, colui che gridò al microfono quel “Gua…”, nessuno ha avuto il tempo di accorgersi di quanto stava avvenendo nel cielo attorno al DC-9. Oggi, a sentire le parole del senatore a vita Francesco Cossiga, che all’epoca era il presidente del Consiglio dei ministri – parole che, ventotto anni dopo, hanno ispirato un nuovo filone investigativo su cui lavora ancora la Procura di Roma – sembra certo che quella notte nei cieli italiani si consumò una battaglia aerea che vide i caccia della Marina francese colpire l’aereo sbagliato nel posto giusto: lì, in quel tratto di buio sopra il Tirreno, doveva esserci l’aereo con a bordo il Muammar Gheddafi, non il DC-9. Un errore, quindi, che attende ancora che sia fatta giustizia.
Dubbi non ce n’erano, fin dall’inizio, fin dalle ore successive mentre tutti puntavano il dito contro la compagnia Itavia, accusata di far volare aerei “carretta”, messa prima in ginocchio e poi fatta fallire. Cinque mesi dopo la strage, due tra i massimi esperti di guerra aerea, gli americani John Transue e John Macidull, guardando il tracciato radar di Ciampino, non ebbero alcun dubbio: nel punto dove il DC-9 è scomparso, un altro aereo, un caccia, ha compiuto una manovra d’attacco da manuale, incrociando la rotta dell’Itavia da ovest verso est. Questo contesto, per chi ha indagato, altro non è che la realtà, chiara e semplice, che non può certamente essere più negata, tanto più da chi aveva precisi obblighi verso i cittadini.
Probabilmente anche Gheddafi sa qualcosa in più di noi, dato che in questi trent’anni non ha mai smesso di affermare che quella sera la Libia fu vittima tanto e quanto il nostro Paese. L’ultima volta lo ha ripetuto davanti alle sue Tv, era il 31 agosto 2003, in occasione del 34esimo anniversario della Rivoluzione libica. Non ha mai smesso di accusare chi probabilmente voleva ucciderlo: forse gli americani, forse i francesi. Insomma i suoi nemici dichiarati. Forse era proprio il suo l’aereo che doveva essere tirato giù, quello che doveva essere lì, nel punto Condor al posto dell’Itavia. Si salvò dall’imboscata – sempre secondo Cossiga – perché i nostri Servizi segreti fecero in tempo ad avvisarlo.
È perciò impossibile accontentarsi degli esiti di un processo penale, già concluso, che si doveva limitare a giudicare la condotta dei vertici dell’Aeronautica militare italiana. Pure loro, i militari che quella notte sedevano davanti ai radar, sanno come sono andate le cose. Per la giustizia, per la Cassazione che nel 2007 li ha assolti “perché il fatto non sussiste”, gli allora vertici dello Stato maggiore dell’Ami non depistarono le indagini né – come sosteneva l’accusa – omisero di comunicare al governo quanto accaduto. Cosa era davvero accaduto lo sapeva, probabilmente, anche Mario Alberto Dettori, il radarista trovato impiccato a un albero nel 1987. Era in servizio al radar quella notte a Grosseto e vide qualcosa che lo turbò, una verità di cui si ammalò e che lentamente ha finito per schiacciarlo. Non è il solo, Dettori, perché in questa storia ci sono anche altre otto vittime collaterali che, come lui, hanno sfiorato la verità e a cui è toccata la stessa sorte dei passeggeri del volo India Hotel 8-7-0. Una sorte infame che li ha attesi – tutti – nascosta dietro un angolo. Le vittime sul DC-9 non c’entravano nulla e nulla sapevano della guerra fredda, silenziosa e strisciante, in corso proprio intorno a loro, in quel buco nero, a metà strada tra Ponza e Ustica: un puntino che sulle carte aeronautiche è chiamato Condor. La versione dei fatti che somiglia di più alla verità, gli italiani la immaginano, l’hanno letta sui giornali, sui libri, l’hanno ascoltata al cinema, nei teatri, l’hanno compresa addirittura attraverso i disegni di un fumetto. Ma vale la pena ripeterla.
Nel ’99, dopo nove anni di istruttoria, il giudice Rosario Priore, l’unico che in questa storia provò ad arrivare fino in fondo, scrisse nero su bianco che il DC-9 fu vittima di “un’azione militare di intercettamento messa in atto, verosimilmente, nei confronti dell’aereo che era nascosto sotto di esso”. Un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, un’operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui furono violati confini e diritti. L’Itavia 870 – concluse la scienza – rimase vittima fortuita di questa azione: di una near collision con un altro velivolo o, peggio ancora, tirato giù da un missile. Quella notte intorno al DC-9, lo dicono i tabulati di Ciampino – miracolosamente scampati dall’azione sistematica e scientifica, di distruzione delle prove – c’erano in volo aerei militari di almeno quattro Paesi: Italia, Libia, Stati Uniti e Francia. Dai depistaggi, ai non so, dai non ricordo, ai colpi di lametta che tagliano intere pagine di registri, dalle bobine cancellate agli aerei che volavano senza nome, è scampata un’unica verità: l’aerovia percorsa dal DC-9, l’Ambra 13, nel punto Condor era intersecata dall’aerovia militare francese Delta Whisky 12.
Quella sera, sarà un caso, dalla base francese di Solenzara in Corsica decollarono diverse coppie di Mirage e in mare c’era almeno una portaerei transalpina. Troppi indizi, nessun alibi e, fino a prova contraria, la parola di un ex Capo di Stato, Cossiga. E poi, come non ricordare quel MiG 23 libico, quello ritrovato sulla Sila, caduto – dice la nostra Aeronautica – il 18 luglio ‘80, perché era rimasto senza benzina, ma con dentro un pilota che indossava divisa e anfibi della nostra Aeronautica, morto almeno venti giorni prima, forse addirittura sempre quel 27 giugno. Un MiG con qualche buco di troppo sulla carlinga, che interessa a molti: alla Cia, ai nostri Servizi, ai Carabinieri di Crotone, che lo cercano a fine giugno e che negheranno per anni di essersene interessati. Un MiG che verosimilmente “buca” lo spazio aereo italiano mentre nel basso Mediterraneo è in corso un’imponente esercitazione della Nato. Forse la chiave di volta è proprio il suo ruolo, forse, come disse una volta Giovanni Spadolini ai giornalisti: “Scoprite cosa è successo a quel MiG caduto sulla Sila e troverete la chiave per capire la strage di Ustica”. Solo pezzi mancanti, in un enorme puzzle che la magistratura non è riuscita, in trent’anni, a rimettere assieme. Come, ad esempio, le risposte alle decine di rogatorie internazionali promosse nel corso dell’istruttoria, che tre nostri alleati e partner commerciali (Francia, Stati Uniti e Libia), non hanno mai ritenuto opportuno fornire.
Ciò che sappiamo, che le indagini hanno certamente chiarito, è che quella sera tutto si consumò sotto gli “occhi” di decine di stazioni radar, sopra le antenne di una dozzina di basi “sigint” dell’intelligence americana, sotto l’ombrello di copertura di numerosi satelliti spia e a portata di un aereo radar Awacs della Nato in volo sull’Appennino tosco-emiliano. Il corridoio percorso dal DC-9 da Bologna a Ponza era tutt’altro che libero, era affollatissimo e anche questo lo sappiamo per le tracce nei tabulati radar, nelle risposte fornite dalla stessa Nato, nelle conversazioni terra-bordo-terra e nelle telefonate intercorse tra Ciampino e l’attaché militare della Usa Embassy of Rome.
Un segreto che non c’è, anzi che non esiste sulla carta. E’ recente, infatti, la conferma da parte del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che nessun segreto di Stato è stato mai apposto su atti o documenti inerenti il caso Ustica. Ma questo già lo sapevamo: “Si stima – scrisse il giudice Priore nelle conclusioni della sua monumentale istruttoria – che ci si sia trovati innanzi a qualcosa che è sfuggito e ancora oggi sfugge al controllo istituzionale ed alle garanzie poste dall’ordinamento. Da un punto di vista formale il segreto non esiste; nella sostanza invece esiste ed è stato opposto nei fatti ostacolando ed impedendo di accertare gli eventi e le responsabilità”.
Il muro di gomma è stato fatale per tutti, e tutti ne sono rimasti invischiati, mentitori e sinceri. Da questa brutta storia il Paese è uscito con le ossa rotte, ferito nella sua sovranità e con esso l’Aeronautica, inseguita per sempre dall’ombra del sospetto. La scienza e la magistratura non possono fare più nulla, solo la politica, e con essa la diplomazia, può ancora andare fino in fondo, chiedendo conto di tutto questo ai nostri alleati e ai suoi apparati d’intelligence, con la più elementare e scontata delle domande. Ancora una volta, sempre la stessa: perché?

di Fabrizio Colarieti – dal libro “Ustica. Scenari di guerra” (Becco Giallo, 2010)