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I pm negli Usa dal testimone della battaglia nel cielo di Ustica / Huffpost

I magistrati della Procura della Repubblica di Roma che indagano sulla strage di Ustica sono pronti a partire per gli Stati Uniti, dove interrogheranno Brian Sandlin, ex membro dell’equipaggio della USS Saratoga (CV 60), che la sera del 27 giugno 1980 era in servizio sul ponte della portaerei ed afferma di aver visto due F-4J Phantom della squadriglia “Fighting 103” rientrare al termine di una missione di combattimento contro due Mig libici senza più l’armamento sotto le ali.
Le autorità americane, dopo un ingenuo tentativo di rallentare la procedura di rogatoria (ufficialmente non sanno dove si trovi), hanno ora autorizzato la trasferta a Port Arthur (Texas) dove Sandlin risiede, come era evidente nella intervista rilasciata ad “Atlantide”, andata in onda nello scorso dicembre su La7. Ma a questa rogatoria il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto procuratore Erminio Amelio dovranno presto aggiungerne un’altra, perché un secondo membro dell’equipaggio della USS Saratoga (S.G.) anche lui di guardia quella sera sul ponte, ha confermato la stessa versione in un’intervista telefonica che verrà trasmessa questa sera, nel corso della puntata di “Atlantide” dedicata al 38mo anniversario della strage. Ecco uno stralcio della conversazione:

– Brian (Sandlin) dovrebbe averle detto che l’avrei chiamata a proposito della missione della Saratoga nel Mediterraneo, dove lei era imbarcato.

– (S.G.) Di quale missione parla?

– Di quella nel 1980, sulla Saratoga.

– (S.G.) Sì… sì…

– Brian nell’intervista che ha concesso ha detto molte cose. Io sto indagando sull’incidente che ha coinvolto un aereo civile italiano il 27 giugno di quell’anno e Brian sostiene che avevate avuto un allarme per due Mig con atteggiamento aggressivo, che furono abbattuti da due F4 Phantom della Saratoga. E’ così?

– (S.G.) Quello che posso dirle è che abbiamo visto partire i caccia armati e quando sono rientrati erano senza armamento. Questo le posso dire… noi eravamo di guardia con compiti di osservazione e tutte le informazioni erano filtrate dall’alto, ma questo abbiamo visto…

Le stesse parole di Sandlin – “Lanciammo i caccia, completamente armati. E al loro ritorno notammo che non avevano più l’armamento…” – che aveva aggiunto: “Il comandante Flatley, attraverso gli altoparlanti, ci informò che durante le nostre operazioni di volo due Mig libici ci erano venuti incontro in assetto aggressivo e avevamo dovuto abbatterli”. Due testimonianze univoche che rimettono la portaerei americana al centro del complesso scenario della strage, come d’altronde era emerso dalle telefonate registrate nei minuti successivi all’esplosione del DC9 Itavia con a bordo 81 persone: tutti cittadini italiani.
In quelle fasi concitate in cui il segnale dell’aereo civile era stato acquisito dal radar del centro di controllo di Ciampino ed era poi scomparso all’altezza delle isole di Ponza e Ustica, i militari avevano già visto numerose tracce di caccia con lo strumento di identificazione (transponder) spento. Caccia che però avevano identificato come americani. Tanto da contattare ripetutamente durante la notte l’ambasciata Usa a Roma, per parlare con l’addetto militare e avere da lui una conferma al sospetto di una collisione o dell’abbattimento per errore del DC9.
Sul ruolo della Saratoga molto si è detto e poche certezze rimangono agli atti. Ci sono foto della portaerei nella rada del porto di Napoli (a qualche miglio dalle banchine) che ne testimoniano la presenza fino alle 18 circa del 27 giugno e poi dopo le 12 del giorno successivo. Ma restano 18 ore da coprire, un “buco” nel quale si inseriscono testimonianze e contraddizioni clamorose. Il comandante della Saratoga, ammiraglio James Flatley, in un primo interrogatorio davanti al giudice istruttore Rosario Priore che negli anni Novanta conduceva l’inchiesta, affermò che quella sera la portaerei si era effettivamente allontanata per poi rientrare il giorno successivo. Salvo poi ritrattare in un secondo interrogatorio.
Brian Sandlin invece ha raccontato che spesso (come quella notte) la Saratoga si allontanava da Napoli per uno, due o tre giorni, a seconda delle esigenze. Ma una verifica incontrovertibile sul giornale di bordo è risultata impossibile: il Deck-log originale della portaerei Saratoga fu distrutto e interamente riscritto in bella copia, con una procedura discutibile che lo stesso Sandlin sostiene essere un atto illegale: “È severamente proibito farlo perché è un documento federale. In caso di errore, durante la redazione, si cancella tracciando una linea, poi si appone una sigla e si annota la correzione. Ma riscrivere l’intero giornale è pazzesco”.
Dunque, dopo 38 anni la partita contro i silenzi e i depistaggi continua. Anche se la Procura di Roma ha lavorato molto sul coinvolgimento nella strage di una portaerei. Possibilità evidenziata da atti ufficiali della Nato trasmessi alla nostra magistratura, da registrazioni radar che mostrano tracce di caccia e anche di un elicottero che originano e terminano in mare nella stessa area dell’esplosione del DC9 e dell’impatto in acqua del relitto e da testimonianze di piloti civili che passarono sulla stessa rotta dell’aereo Itavia alcune ore prima del disastro. L’ipotesi su cui i magistrati lavorano è quella dell’intrusione di uno o due caccia probabilmente libici che usarono il DC9 per coprirsi dall’individuazione dei radar della Difesa aerea, ma furono intercettati da caccia militari non identificati (francesi e ora anche americani, i maggiori indiziati). Ne seguì uno scontro, nel corso del quale l’aereo di linea venne colpito e un Mig fu inseguito fin sulla Sila dove precipitò, per essere poi “ufficialmente” ritrovato il 18 luglio successivo.
Tre diverse sentenze della Cassazione civile hanno già stabilito che il DC9 fu abbattuto da un missile e condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a pagare un risarcimento ai familiari delle vittime e agli eredi di Aldo Davanzali, patron dell’Itavia, per non avere garantito la sicurezza del nostro spazio aereo e certificando di fatto che la strage fu la conseguenza di un episodio di guerra in tempo di pace. Una sola sentenza della Cassazione penale (2004) mandò assolto dall’accusa di depistaggio il vertice dell’Aeronautica del 1980 (che però era stato condannato in primo grado), concludendo che “le ipotesi dell’abbattimento dell’aereo ad opera di un missile o di una esplosione a bordo non hanno trovato conferma” poiché “in termini di certezza nulla è emerso dalle perizie e dalle consulenze tecniche delle varie commissioni che si sono succedute nel tempo”. Davvero poco per continuare a sostenere la tesi di un ordigno esploso nella toilette di coda, senza però spiegare come avrebbe fatto un terrorista a piazzare indisturbato la bomba su un aereo che doveva compiere un volo di 50 minuti, ma rimase due ore sulla pista a causa del maltempo con l’equipaggio a bordo.
Poco, o meglio niente, anche per dare una giustificazione plausibile all’assenza di qualsiasi traccia di esplosivo sull’asse della toilette, che sarebbe stata a mezzo metro di distanza dalla bomba capace di far collassare l’aereo ma fu ripescata intatta. Poco ma abbastanza per il cosiddetto “Partito della bomba” (tesi che salverebbe i responsabili della Difesa e dei Trasporti dell’epoca da una possibile rivalsa economica per il danno subito dallo Stato), il cui portabandiera è quel Carlo Giovanardi passato alle cronache per le tante dichiarazioni omofobe, per le macabre esternazioni sulla morte del giovane Federico Aldrovandi e la richiesta che gli fu fatta dalla Commissione antimafia perché valutasse “l’opportunità di sospendersi” da senatore. Poco ma adesso abbastanza per rispondere ad una formale accusa di depistaggio che gli è stata mossa dall’avvocato Daniele Osnato, legale di molti familiari delle vittime di Ustica, con una circostanziata querela a proposito di quella fantomatica bomba che da anni difende a spada tratta.
(Andrea Purgatori per Huffington Post)

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