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La strage di Ustica, 40 anni fa: la battaglia nei cieli e le bugie di Stato

Dc9Raccontare la strage di Ustica dopo 40 anni, un tempo infinito per i familiari delle 81 vittime che dal 27 giugno del 1980 aspettano la verità, è un po’ come fare la cronaca di una lunga e complessa corsa a ostacoli. Serve la memoria, che conta ma non basta. E non soltanto perché alla Procura di Roma c’è tuttora una inchiesta aperta per stabilire cause e responsabilità dell’esplosione di quel DC9 che volava da Bologna a Palermo in un cielo limpido ma, al contrario di quello che per decenni si sono affannati a sostenere i vertici militari dell’epoca, affollato di caccia di molte nazioni: americani, francesi, britannici e naturalmente italiani. E tutto questo in un Mediterraneo che allora era uno dei luoghi più pericolosi del pianeta. Dove si scaricavano fortissime tensioni internazionali tra i due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, ma anche confronti tra nazioni.

Ecco, è in questo contesto che va calata la storia della strage. In una stagione in cui l’Italia giocava su più tavoli, per interessi diversi. Basta pensare alla Libia del colonnello Muammar Gheddafi, che all’epoca era considerato il nemico numero uno dell’Occidente come poi lo sarebbero diventati Saddam Hussein e Osama Bin Laden. Nel 1980, Gheddafi possedeva il 13 per cento delle azioni della nostra industria più importante: la Fiat. Ci garantiva quasi la metà dell’energia di cui il paese aveva bisogno, tra petrolio e gas. E aveva accolto oltre ventimila lavoratori italiani, che costituivano la forza necessaria a costruire la grande Jamahiria su cui il colonnello aveva fondato la propria ambizione di leader del mondo arabo. Potevano americani e francesi tollerare che l’Italia intrattenesse rapporti tanto ambigui con Gheddafi? Certamente, no. E ce lo avevano detto esplicitamente.

Il DC9 Itavia decolla dall’aeroporto di Bologna alle 20,08 con due ore di ritardo, a causa di un violento temporale. A bordo ci sono due piloti, due assistenti di volo e 77 passeggeri tra cui 13 bambini. La rotta prevede il sorvolo dell’Appennino, la discesa fino a Roma e poi l’ultima tratta lungo l’aerovia Ambra 13 fino a Palermo. Ma è proprio quando l’aereo si trova sull’Appennino che, secondo le perizie radaristiche, si verificano i primi due episodi sconcertanti di questa lunga storia.

Primo. Il DC9 viene agganciato da un altro velivolo, quasi certamente un caccia e forse un Mig libico (tre settimane dopo ne verrà “ufficialmente” rinvenuto uno precipitato sulla Sila), che si mette nella scia dell’aereo civile per nascondersi ai radar. Secondo. Due intercettori F104 dello stormo dell’Aeronautica di Grosseto incrociano il DC9 e rientrano alla base segnalando un’emergenza come previsto dal manuale Nato: volando in modo triangolare sull’aeroporto mentre inviano segnali muti premendo il pulsante della radio. Sull’F104 che dà l’allarme ci sono i piloti Ivo Nutarelli e Mario Naldini.

Hanno visto l’intruso? Sì, perché volavano “a vista”. Ma non potranno mai raccontarlo. Prima di essere interrogati dal giudice Rosario Priore moriranno a Ramstein, in Germania, dove si scontreranno uno contro l’altro durante un’esibizione delle Frecce tricolori. Intanto il DC9 continua sulla rotta verso Sud. E il controllo del traffico aereo di Ciampino lo segue. Ma la traccia è a zigzag, e i periti la interpreteranno come doppia, confermando la presenza del secondo velivolo sconosciuto. Fino al cielo sulle isole di Ponza e Ustica. Dove pochi secondi prima delle 21 il copilota dice quell’ultima frase, completata da una nuova analisi compiuta da Rainews sulla registrazione del voice recorder: “Guarda cos’è….”. Poi l’esplosione e il silenzio.

Cosa è accaduto? Cosa hanno visto i piloti del DC9? Secondo i periti italiani e americani, la ricostruzione delle tracce radar indica che in quell’istante almeno un altro caccia non identificato appare sulla scena con una deliberata manovra d’attacco proveniendo da ovest. L’obiettivo non è ovviamente l’aereo civile, ma l’intruso che si nasconde. Chi colpisce chi non lo sappiamo, ma sappiamo che in mezzo ai resti del DC9 che precipitano in mare l’intruso tenta la fuga, inseguito da due caccia che testimoni in punti diversi della Calabria vedono distintamente.

La direzione è quella che porta al luogo nel quale verrà rinvenuto il Mig23 libico. E l’autopsia sul cadavere del pilota rivelerà che non è morto il 18 luglio, giorno del ritrovamento ufficiale ma tre settimane prima. Quindi, la sera del 27 giugno 1980. Anche se quella relazione sparirà insieme a parti del corpo prelevate durante l’autopsia, a tutte le foto scattate e agli appunti che aveva con sé.

Il resto, il resto di questi 40 anni, è una catena di silenzi o bugie che coprono ancora oggi il cuore di quello scenario di guerra. Silenzi o bugie (il cedimento strutturale, la bomba) italiane, francesi, americane e di tanti paesi che insistono a non fornire ai magistrati ciò che sarebbe necessario a chiudere questa sporca partita. Ma caricare sulle spalle di chi indaga tutto il peso della ricerca della verità è un alibi. Non potranno mai essere dei magistrati a bussare alla porta della Casa Bianca o dell’Eliseo, serve uno Stato che abbia voglia di fare i conti col proprio passato.

Perché appunto la memoria e le commemorazioni non bastano. Né bastano i risarcimenti stabiliti dai tribunali che hanno condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti certificando che ad abbattere il DC9 fu un missile. Soprattutto se c’è in ballo il dolore di 81 famiglie e la loro sacrosanta pretesa di avere giustizia.

(di Andrea Purgatori – Corriere della Sera)

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