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Da Lockerbie a Ustica: i misteri sepolti col Raìs

WASHINGTON – Quando Brian Flynn ha visto le immagini di Gheddafi in mano ai ribelli ha detto: «Mi spiace che non possano ucciderlo due volte». Una reazione a caldo, pensando al fratello J.P. morto sul jumbo Pan Am esploso a Lockerbie, Scozia, nel 1998. Un attentato attribuito ai servizi libici. Ventiquattrore dopo Brian Flynn ha corretto il suo giudizio. Non sono completamente felice – ha detto – perché con la fine del Colonnello scompare una «montagna di segreti». E ha ragione. Se preso vivo il Raìs avrebbe potuto raccontare molto su una serie impressionante di attacchi. Lockerbie – 270 vittime – è il più importante. Il principale accusato, l’agente Al Megrahi, è stato rimandato dagli scozzesi in Libia perché «in fin di vita» e in cambio della promessa di contratti petroliferi. Ma ai familiari delle vittime lo 007 interessa fino a un certo punto. Due le domande che continuano ad angosciarli: chi ha dato l’ordine di piazzare la bomba? E oltre ai libici erano coinvolti altri attori? Il primo interrogativo chiama in causa lo stesso Gheddafi e il suo uomo della sicurezza, Abdallah Al Senussi, oggi rifugiato in Niger. Il secondo allunga sospetti sugli iraniani e un gruppo radicale pro-siriano. Da Londra, invece, speravano e – sperano – di capire dove sia finito Abdulmagif Ameri, un diplomatico responsabile della morte di una poliziotta britannica, Yvonne Fletcher, presa a fucilate dalla finestra dell’ambasciata libica. Ancora: Gheddafi avrebbe potuto dare informazioni sul sostegno garantito ai terroristi dell’Ira nord irlandese. In particolare sulle tonnellate di esplosivo al plastico ancora nascoste da qualche parte nell’Ulster e affidato agli «armieri» del gruppo.
Un reticolo di trame che non ha risparmiato neppure l’Italia. Come non pensare alla strage di Ustica con il Dc 9 Itavia distrutto dopo una battaglia aerea (era il 1980, 81 le vittime). Si è sempre sospettato che il vero obiettivo fosse il jet del Colonnello. Lui sicuramente sapeva molto, anche se la sua parola sarebbe stata accolta con sospetto. Diciamo che non era un teste affidabile. Ma forse, se catturato, avrebbe potuto aiutare a ristabilire una parte di verità. Così come era in grado di mettere la parola fine al giallo dell’imam Mussa Sadr, guida spirituale degli sciiti svanito dopo un viaggio in Libia nel 1978. I suoi seguaci hanno conservato in questi anni la speranza che fosse ancora in vita. Un ex giudice militare ha invece affermato, alla metà di settembre, che il religioso è stato assassinato dopo una furiosa lite con il Raìs. Il suo corpo è stato sepolto prima a Sirte, quindi a Sebha. Brutta fine anche per il giornalista che lo accompagnava. Poi il regime ha fatto partire alla volta di Roma un sosia dell’imam. Una brutta vicenda per la quale l’Italia è stata considerata – a torto o a ragione – complice del piano. L’inchiesta è comunque ancora aperta.
Dall’imam al «Serpente». Dal 1983 all’85 Roma è teatro di attentati devastanti del gruppo di Abu Nidal. I fedayn colpiscono diplomatici, l’aeroporto, il celebre Café de Paris. A coordinare gran parte degli attacchi è un professionista del terrore, Samir Kadr o Kadar, detto «il Serpente». Ex elettricista, diventato «ufficiale» di Abu Nidal, si trasferisce nella capitale italiana che diventa la sua base operativa. Ha un ufficio vicino a via Veneto e gestisce una società di copertura. Furbo, spietato, fa credere di essere morto in un attacco ma il trucco non funziona e le polizie europee lo cercano ovunque. Dopo la strage di Fiumicino (1985) si rifugia in Svezia con la moglie finlandese conosciuta proprio al Café de Paris. Dalla Scandinavia organizza il dirottamento di un jet americano a Karachi, azione che si conclude con un massacro. Il «Serpente», però, striscia via usando un’altra società – la Al Alamia – come paravento. Vende scarpe e auto, intanto aiuta il suo gruppo. E viaggia moltissimo. L’intelligence lo segnala in Bolivia, quindi in Sudan, infine a Tripoli. È lì l’ultimo indirizzo – si fa per dire – conosciuto. Un criminale protagonista di una campagna di sangue finanziata dai dollari del Colonnello.

Guido Olimpio – Corriere della Sera del 22 ottobre 2011 [link originale]

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