Ustica più segreta di Teheran. Dopo 40 anni nessuna verità sul volo Itavia

di | 18 Gennaio 2020

E’ la cattiva sorte – e la crudele memoria – ad affiancare due tragedie così distanti tra loro. Ma andrà pure riconosciuto che i generali iraniani – brutti, sporchi, cattivi e con le spalle al muro – hanno impiegato 72 ore a confessare davanti al mondo di avere abbattuto, per imperdonabile errore, il Boeing di linea ucraino con i suoi 176 passeggeri a bordo. Mentre noi italiani brava gente, custodi dei diritti umani, della libera informazione, di una opinione pubblica abilitata a tutti gli standard delle democrazie occidentali, stiamo per celebrare i 40 anni della strage di Ustica senza sapere ancora la verità – vera, univoca, accertata – su quello che accadde alle 20,59 del 27 giugno 1980, quando il volo di linea Dc-9 Itavia, sulla rotta Bologna-Palermo, scomparve dal cielo dei radar, per posarsi sulla palude nera dei misteri italiani con i suoi duemila frammenti recuperati in mare, le infinite indagini, gli infiniti depistaggi, le immancabili commissioni di inchiesta, e i suoi 81 passeggeri morti, da allora insepolti. Troppe prove documentali inchiodavano i generali di Teheran, si è detto: impossibile smentire le immagini, i satelliti, i tracciati radar. Di minuto in minuto la verità dei fatti si era mangiata le menzogne pronunciate, nelle prime ore dopo l’esplosione, dai militari iraniani e dal presidente Hassan Rouhani. Tutto vero. Ma è altrettanto vero che anche nella tragedia italiana di quarant’anni fa c’erano prove documentali a disposizione della verità: c’erano i tracciati radar, le registrazioni radio, le registrazioni telefoniche, le identificazioni dei transponder, i registri degli aeroporti militari, gli occhi elettronici di tutti i Servizi segreti addestrati a farsi la guerra nel Mediterraneo. Solo che da noi sono state le menzogne a mangiarsi la verita. E a digerirla con tecniche da manuale della disinformazione. Per prima cosa la strage e stata suddivisa in tante versioni possibili: il missile, la collisione, la bomba interna, persino il “cedimento strutturale”. Ogni ipotesi moltiplicata da testimoni e indizi favorevoli e contrari, dunque equivalenti. Per poi essere complicate da indagini malfatte, omissioni, dimenticanze, lentezze. Il tutto perfezionato dall’implacabile silenzio dei vertici dell’Aeronautica militare. Dalla pavidita dei governi italiani. Dall’omerta che gli alleati militari si sentono onorati di rispettare. Erano gli anni della Guerra fredda. E della massima tensione con la Libia di Gheddafi. Portaerei americane e francesi incrociavano nel Golfo di Napoli e al largo della Corsica. Pattuglie aeree italiane monitoravano i confini. Probabile che il volo Itavia sia finito dentro “uno scenario di guerra aerea”: due Mig libici inseguiti dagli F 104 americani o dai Mirage francesi, che si rifugiano sotto la traccia radar del DC-9 che viaggia lento, velocissimi missili aria-aria che volano a intercettare i Mig, l’impatto che fa esplodere l’aereo sbagliato. Da allora: 2 milioni di pagine di indagini al primo (unico e mai concluso) processo, 4 mila testimoni, 300 miliardi di lire spese nell’inchiesta, una scia di 14 morti sospette legate ai misteri della strage, a cominciare dal pilota libico schiantatosi sui monti della Sila e dal radarista Mario Alberto Dettori, primo testimone di quella notte, trovato impiccato a un albero, un suicidio ancora senza spiegazioni. Tutto archiviato nel grande buio del Museo della Memoria di Bologna, dove i tecnici con infinita pazienza hanno ricostruito il 96 per cento del relitto. Che aspetta da 40 anni, in quella sospensione di tempo e di significato, un gesto di coraggio che ancora nessuno, dopo trenta governi che hanno sorvolato la nostra Repubblica, ha avuto il coraggio di compiere. Basterebbe una parola di verità, anzi due: imperdonabile errore. (di Pino Corrias, la Repubblica 13 gennaio 2020)